1982. L’Italia vinceva i mondiali
e Deckard, il cacciatore di androidi impersonato da Harrison Ford, si
innamorava di Rachel, dolce replicante e coprotagonista del primo Blade Runner. Una cosa succedeva nella
realtà, l’altra su pellicola. Ma ambedue gli eventi hanno segnato intere
generazioni come simboli ineguagliabili di bellezza: le magie di Paolo Rossi e
la piovosa Los Angeles del distopico 2020.
Fino a qualche anno fa era impensabile
che un capolavoro come il film firmato da Ridley Scott e tratto dal libro “Do
Androids Dream of Electric Sheep?” di Philip Dick potesse avere un seguito: quel
mondo così diverso dal nostro prossimo futuro era talmente intoccabile e
perfetto che ampliarlo lo avrebbe forse rovinato.
Però il buon Scott ha sempre mille idee: prende i suoi successi e ci torna più
volte (Alien ne è la testimonianza)
ma non sempre la magia funziona. Si parla di una presunta resurrezione de Il Gladiatore ma sicuramente qualcuno
gli avrà consigliato di mettersi una coperta sulle gambe davanti al camino e
godersi un whiskey mentre conta i soldi guadagnati durante la carriera.
Però quando Scott si impunta su
una cosa che gli sta a cuore, come l’universo di BR (Blade Runner, non Brigate Rosse), riesce a tirare fuori cose
interessanti, o meglio, domande interessanti.
Per i profani del cinema che non
hanno mai visto il primo BR: vergogna.
Tuttavia potete ancora rimediare, anzi vi invidio un poco poiché avete la
possibilità di godervi per la prima volta un mondo diverso, forse un po’ scontato
nel 2017, ma che ha ispirato la fantascienza moderna sia visualmente che
tecnicamente.
La trama del primo film è presto detta: un Blade Runner (cacciatore di
androidi) che si è ritirato dal mestiere si ritrova ad affrontare una nuova, e
possibilmente ultima, sfida che consiste nel sopprimere un gruppo di replicanti
ribelli.
Prima di creare malintesi: replicanti = umanoidi, creati per sostituire l’uomo
nelle attività peggiori, che sono del tutto simili agli umani ma che non hanno
un’anima.
Per Deckard, il protagonista, il
tutto si complica davanti all’amore, che gli permette di vedere la situazione
da un nuovo punto di vista: quello del nemico.
Insomma un noir in cui le ombre definiscono i personaggi più della luce; un detective immorale, una dark lady, un
cattivo con perfide intenzioni distruttive e una città che avvolge la trama
sotto una fitta pioggia infinita. Nel 1982 c’erano le carte in regola per far
diventare una novità, un cult per tutti.
Questa era più o meno una
premessa: una novità che dura da 35 anni e che era impossibile continuare perché
quasi sacra. Un po’ come se decidessero di scrivere una Bibbia 2 in cui Gesù ritorna e fa altro.
Ma gli esploratori, i pionieri
del cinema decidono che è ora di ampliare l’alone di perfezione che permea ogni
fotogramma del film e si pongono una nuova domanda:
SI PUÒ DAVVERO DECIDERE CHI È
NATO PER PROCREARE?
Basta guardarsi intorno per
rispondersi: no, non si può decidere, ma la società ha creato dei paletti così
ben definiti da seguire lungo l’arco narrativo di ogni giorno che questa
libertà di scelta ci pare un ologramma impalpabile. E se con questa domanda
avete pensato a tutte le lamentele dei gruppi gay, pensate a quante proteste
potrebbero unirsi dei replicanti il cui unico scopo, essendo creati e non nati,
è quello di fare mansioni che l’uomo non vuole più fare. Si unirebbero perché i
replicanti non possono, per loro natura,
riprodursi.
MA,
ed ecco che arriviamo al BR2049, qualcuno ci è riuscito: prima che tutta una
generazione di replicanti ritenuti pericolosi venisse sterminata con un
genocidio chiamato blackout, una
replicante ha dato alla luce un erede.
Il compito dell’agente K
(replicante di ultima generazione, interpretato da Ryan Gosling) è di trovarlo
e ucciderlo prima che questa notizia si possa diffondere ovunque.
In un primo momento il tema
problema del primo film ritorna: SI PUÒ DAVVERO DECIDERE CHI È UMANO?
La risposta è nel finale, quindi no spoiler, per ora.
K – i replicanti hanno dei codici
identificativi, non dei nomi – è un blade runner che conduce una vita come
tutti gli altri nell’oscura Los Angeles del 2049. I grattacieli sono gli
edifici più piccoli ed ogni cosa è pregna di tecnologia.
K vive con la sua compagna ma al contempo vive da solo: Joi, interpretata da
Ana de Armas, è un ologramma con cui K ha una relazione completa, escluso il
fattore fisico. Lui tiene così tanto a lei che le regala un dispositivo che le
permette di uscire di casa e vivere quasi normalmente. La presenza di Joy
determina la sopravvivenza di K, rendendola più umana ricordandogli che in
fondo la risposta alla domanda del primo film è piuttosto vera. Per questo BR è
stato innovativo: anche la fantascienza più distopica è in grado di basarsi
sull’amore.
Joi probabilmente è il personaggio a cui sono più affezionato perché nella sua
inconsistenza fisica è quell’elemento concreto che permette al protagonista di
non rimanere un ente freddo e distaccato dai sentimenti così che possa
evolversi, seguire il suo arco evolutivo.
Inoltre c’è una cosa di Joi che sarà determinante nel terzo atto. Ma non la
rivelerò. Andate a cinema per scoprirla.
Il cattivo è Jared Leto, bravo
bravissimo, bis. Ha addirittura recitato senza vedere nulla a causa delle lenti
a contatto usate sul set per rendere il suo personaggio più umanoide.
Lui è Wallace, ricchissimo magnate che ha acquistato la Tyrell (azienda
antagonista del primo film) continuando la ricerca nel miglioramento della
produzione di androidi per perfidi usi personali. Lui e il suo braccio destro,
l’abile Luv, sanno che in giro c’è un erede di un replicante e vogliono
catturarlo per studiarlo e capire quale fattore gli abbia permesso di nascere
da un essere creato artificialmente.
Ora, se siete abbastanza svegli e
avete fatto due più due già alla fine della prima pellicola, avete la riposta a
chi sono i due genitori del ricercato.
Harrison Ford ritorna quando la
risposta è ormai prossima e deve essere solo confermata.
In sala, durante la sua prima scena per un istante ho pensato: “Hey, è Han
Solo!”. Invece era Deckard che, dal blackout
che ha ucciso la sua dolce Rachel, si è nascosto in una zona deserta della
città. Il suo arrivo all’inizio del secondo tempo è il catalizzatore di una
storia che, altrimenti, sarebbe morta in dieci minuti.
Picchiarsi a ritmo di Frank
Sinatra e di Elvis è un’esperienza che potrebbe sembrare trash, ma gestita come
sa fare Denis Villeneuve (ormai affermatissimo regista canadese – avete presente
Arrival e Prisoners?) risulta come un’incantevole scontro tra due pugili che
combattono insieme e contro allo stesso tempo.
Come i manuali di sceneggiatura
spiegano: il personaggio è descritto
dalle sue azioni, in particolar modo quelle che lo spingono verso il confine più estremo (la sconfitta o
la morte). Questo film è principalmente basato su questa affermazione, basti
vedere la prima scena e la prima svolta narrativa.
Direi che la trama è stata
abbastanza delineata senza dichiarare troppe anticipazioni nocive alla visione.
È meglio parlare un poco, poiché ne so molto poco, dello stile del film.
Villeneuve è stato molto chiaro
sin dai primi esperimenti di visualizzazione del film; deve aver detto una cosa
tipo: io sono canadese quindi ci sarà un sacco di neve in questo film.
La neve c’è ed è parecchio metaforica. Ma ci sono anche piani lunghi smarmellati di zafferano che contrastano
la desolazione del nascondiglio di Deckard dalla buia e fredda palette destinata
alla città.
Esiste un codice per ogni scelta cromatica e, per evitare spoiler, dirò solo
che cambia a seconda o del luogo o del personaggio di cui si parla. E se
apparentemente il cattivo e Deckard non centrano nulla l’un con l’altro, il
fatto che abbiano dedicato loro la stessa tavolozza cromatica un motivo ci
sarà.
Ops. Ho parlato troppo. Ma confido nella vostra curiosità nel cercare una
risposta anche a questo.
Quando uscirete dalla sala avrete
risposto sicuramente alla domanda iniziale, ma nel frattempo ve ne sarete
chieste altre cento.
Per questo, temo, ce ne saranno altri di BR.
Temo perché se si segue la scia di Alien,
tra prequel e sequel si rischia di rovinare un universo narrativo che finora è
perfetto.
Quindi, Mr. Scott, scelga bene che
si soldi ne ha in abbondanza.
Questa volta ha scelto bene, la prossima faccia altrettanto.
Grazie.
E non litighi più con Harrison
Ford sulla questione Deckard-è-un-replicante-o-no
perché si è capito abbondantemente cosa realmente è.
Si ricordi che tra i due replicanti il terzo…