domenica 25 febbraio 2018

THE SHAPE OF WATER - Il gioco del silenzio


Freddo. Caldo. Freddo. Caldo. Freddo. Caldo.
Il quasi gelo siberiano ha invaso Milano per questi giorni e non c’è cosa migliore di andare al cinema a scaldarsi gli animi. Quindi
Casa. Strada. Bus. Strada. Metro. Strada. Cinema.
Ecco spiegato tutto

Ma dentro la parola cinema ci sta un enorme racconto che è quello di The Shape of Water, in italiano La Forma dell’Acqua, il nuovo film di Guillermo del Toro plurinominato agli Oscar e vincitore di ogni tipo di concorso, anche della sagra del pesce fritto di Monterrey se fosse stato possibile.
L’hanno detto e ridetto in milioni di modi, ma sì, questo film è una specie di fiaba che si snoda attraverso una storia d’amore ai limiti della zoofilia.
Quindi, una volta usciti dalla sala, non bisogna scandalizzarsi, anche perché abbiamo convissuto per anni con La Bella e la Bestia e nessuno si è mai lamentato. Godetevi l’incanto.

Lo dico come se fosse un tema delle elementari: a me mi è piaciuto.
Anzi, mi sono piaciute due cose in particolare, che mi hanno ispirato parecchio.

Una fiaba nella Guerra Fredda

La prima è la scelta di collocare precisamente i fatti in un certo periodo storico. Per non rischiare un certo tipo di film in costume (principesse e mostri e aiutanti buffi), del Toro usa la sua tecnica rodata (vedi tutti i suoi film precedenti) di dare un tempo e uno spazio fisico realmente esistito/esistente ai personaggi. Credere a pura finzione sarà più semplice in questo modo.
Ed eccoci in America nei 60s, agli albori degli scontri tecnologici tra USA e URSS, in piena guerra fredda.
In un laboratorio viene nascosta una creatura strana, sottratta a una popolazione indigena che la venerava come un dio, a cui il colonnello Strickland e i suoi sottoposti vogliono sottoporre torture ed esperimenti. Il mostro è simile ad un enorme girino antropomorfo (il punto di riferimento è il Mostro della Laguna targato Universal), ed è chiaramente spaventato dalla violenza dei militari.
Ad umanizzare la realtà che deve affrontare, arriva l’eroina della storia: Elisa, donna timida e soprattutto muta, disprezzata da molti ma non dal suo vicino – uno squattrinato artista segretamente gay e molto stempiato – e dalla collega Zelda, donna di origini africane con problemi coniugali. La cerchia di Elisa quindi consta di due emarginati a cui si aggiunge il mostro, che grazie a lei impara a comunicare e a capire che non tutti gli uomini sono violenti.
Dopo una vita passata a pulire pavimenti e a riordinare stanze, Elisa incontra il disordine e vede che è più emozionante. Per alimentarlo escogita un piano. Non dico altro.
 

Comunicare e altri limiti 

La seconda cosa che mi ha colpito di The Shape of Water è stata la semplicità di del Toro di trattare una relazione apparentemente innaturale, da fiaba infatti, come se fosse una comune. Il più grande scoglio che ha dovuto affrontare è stato quello della comunicazione, così ha capito che nessuno dei due doveva parlare. Sono i corpi e i fatti a muovere i loro sentimenti, la diversità che li accomuna e le imperfezioni di uno (i suoi limiti fisiologici e l’impossibilità di vivere senz’acqua) e dell’altra (il limite che il suo amore incontra nelle parole che vorrebbe dire e l’impossibilità di tenerlo per sempre con sè). Intrattenere una relazione, avere un’amicizia è principalmente comunicare.
Elisa non riesce a comunicare con il vicino-artista Giles perché lui è troppo impegnato a nascondere la sua identità omosessuale dietro il successo lavorativo.
Elisa non riesce a comunicare con Zelda perché i problemi con suo marito sono tanto ingombranti da tenere banco per una scena intera in cui lei parla, parla e parla senza che la poverina possa fermarla.
Ma con il mostro Elisa può comunicare perché ambedue giocano allo stesso gioco, che da piccoli chiamiamo del silenzio e che da grandi chiamiamo solitudine.

The Shape of Water è un film sul rivelarsi.
Il dottor Hoffstetler (a cui viene affidata la cura della creatura), Giles, Elisa, il mostro e persino il cattivo, il colonnello, cercano di rivelarsi perché quello che hanno trascorso o che stanno trascorrendo ha dato loro una parte da cui schiodarsi è difficile. 
The Shape of Water è un film che ti fa capire che a volte il mostro incatenato siamo noi.
Lo diventiamo quando qualcuno ci prende come preda o come sacrificio, e lo fa perché o non ha capito cosa si voleva comunicare o non ci ha lasciato il tempo di farlo. In quanto mostro, ci sentiamo liberi quando qualcun’altro ci capisce e riesce ad amarci.
Questa è la vita, non solo una fiaba.

P.S.: notevole e divertente la citazione del primo Alien. Facile trovarla. Guardate bene il secondo atto.

- Se noi non facciamo niente, non siamo niente. -

venerdì 23 febbraio 2018

PARIGI SOTTO LA NEVE - Poesia Pre-primaverile



Diciamo che non è il giorno migliore per partire
cominciando dalla neve
continuando coi ritardi
finendo per non arrivare a vedere
il silenzio
il desiderio di poter scappare e cambiare
per poco
giusto il tempo di pensare
non c'è cosa migliore
di uscire dal proprio posto.

Dalla caverna per arrivare
dove anche la luna si stanca di sentirsi guardata
è un tragitto infinito
quindi ammettilo
non è oggi il giorno di farlo.

Ma vuoi mettere
mi dici
Parigi sotto la neve?
Anche se non avrò i vestiti adatti
l'energia che mi aspettavo
il tempo del ritardo sarà
un momento più lungo
per lasciarmi immaginare
quanto silenzio si nasconde
sotto il bianco del mondo
là fuori.

domenica 18 febbraio 2018

BLACK PANTHER - È tempo di un eroe diverso


Dopo venti minuti, quando era chiaro che il film questione era ambientato in uno sperduto stato dell’Africa, con un protagonista ed eroe africano, circondato da una tribù guarda a caso anch’essa di chiare origini africane! -, un bambino sui dieci anni accanto a me, si gira verso il padre e gli dice ma pà questo film è pieno di negri.
Evviva.
Questo non è lo spirito giusto per affrontare Black Panther.


Perché la nuova pellicola firmata Marvel alla fine è un inno all’integrazione e all’identità di un popolo, ma non c’è speranza nel suo messaggio se la si vede solo come una storia dell’ennesimo supereroe che vuole salvare il mondo. Anche IronMan nella sua opulenza ci insegna qualcosa; anche Capitan America, nella sua forza fisica ci insegna qualcosa, così come Hulk nella sua rabbia, Doctor Strange nella sua misticità e Thor nella sua imbattibilità. Ma essendo personaggi bianchi accettiamo la lezione.
Black Panther è nero, e un ragazzino bianco chiaramente ignorante e irrispettoso non vorrà mai assimilare i valori di un personaggio che canonicamente non gli appartiene.
Ma non prendiamoci in giro: un eroe africano avrebbe creato scompiglio e fastidio cinquant’anni fa.
Benvenuti nel 2018. Abbiamo i Trump e i Salvini, abbiamo una fiumana di immigrati che periodicamente chiede aiuto verso una vita migliore, abbiamo nei nostri discorsi una bava di razzismo che ancora ci fa rabbrividire. 
E ieri avevo, dall’altro lato della poltrona, quattro ragazzi africani che a malapena parlavano italiano e che, esaltatissimi davanti al film, talvolta si chiedevano tra di loro cosa dicessero i protagonisti. 

Il film: la narrazione e il ritmo

 Nel momento in cui T’Challa sale al trono (il padre, si sa, è morto durante l’ultimo film di Cap) diventa sia Black Panther (cioè il guerriero protettore del Wakanda) sia Re di tutti i popoli che compongono il suo stato. Certamente le schermaglie interne al paese non mancano, ma è una verità scomoda a dare il via al viaggio dell’eroe, alla sua trasformazione contro un personaggio che vuole rubargli il trono.

Le dinamiche narrative si diramano in più sensi: la famiglia, che oltre comprendere la madre e la sorella (che personaggio! Sicuramente il mio preferito del film), abbraccia anche la ex del nuovo re e l’intero esercito di guerriere – si, esatto, guerriere #timesup guys -; gli affari esteri che il Wakanda ha sottovalutato da sempre nascondendosi dall’ONU e creando involontariamente un commercio illegale di vibranio; la paura di condividere la propria tradizione e cultura sedimentata nell’abitudine e nel pregiudizio; la verità della propria storia, i segreti detti a fin di bene che però prima o poi si palesano creando problemi. 
Tutto è unito dal denominatore comune di un mondo tanto tribale quanto avanzato in cui l’eredità dei padri è fondamento di ogni decisione. Ma questi padri è tempo di rottamarli per andare avanti.
A livello di eventi, nulla di spettacolare. Leggendo i manuali di scrittura si può capire ogni singolo momento del film e anche prevederlo perché l’arco di cambiamento di un eroe passa per alcuni momenti chiave e necessari all’introduzione, ma è la narrazione visuale che è da sottolineare. Black Panther narra coi colori. Suppongo che l’artbook di questo film sia qualcosa di pazzesco. 
Le ambientazioni, i trucchi, i costumi e gli inserti tecnologici sono il motore visivo di tutto. C’è ritmo e cultura nella scelta di ogni abito e di ogni set, e c’è tutto il divertimento dei reparti grafici che hanno tirato fuori un mondo inesplorato che ha permesso loro di inventarsi il futuro una volta ancora.
 

Le conseguenze di BP 

Nel mondo Marvel il Wakanda romperà le regole, porterà modernità e toglierà una serie di stereotipi dai canoni supereroisitici visti finora. In Infinity War, il prossimo film Avenger in arrivo a maggio, sarà uno dei luoghi chiave della battaglia a Thanos e doterà alcuni degli eroi a cui siamo ormai affezionati di nuove armi (basta aspettare la scena post-credit per capire qualcosa…).
In poche parole, Black Panther è un film moderno nel mondo Marvel, è un film che spacca in ogni senso (metaforico e narrativo) ed è eticamente utile per tutti quei bambini incredibilmente irrispettosi che fanno ancora differenze usando la parola razza per etichettare una persona. Basta poco per essere degli eroi: cominciamo dal non usare la parola negro in quel modo.

-Comunque io ho visto molto del Re Leone nel film. Well done Disney, well done.-

Shuri, sorella di T'Challa - LNZ (c) 2018

venerdì 9 febbraio 2018

TUTTI E VENTI - Poesia Invernale


Ora vi posso salutare
siete in fila tutti e venti
mi allontano e alzo la mano
ridete
non sapendo che quello che mi aspetta
è meglio di quello che ho già vissuto.

Mi volto e mi inseguite
siete curiosi
ma fate un gran rumore che è impossibile ignorarvi
questa volta quindi rido io
dato che non mi volete lasciar stare.
Sapete che vi mancherò
appena vi avrò seminati.

Siete stati un mio pensiero
un modo di essere o di fare
siete stati una caratteristica o uno sbaglio
che mi hanno reso
più di quanto possa avervi dato.
Siete stati film sbagliati sulla pay tv
i rammarichi e le prime birre con gli amici
ma più di tutto siete stati abbastanza sinceri
per farmi capire che non devo rimpiangervi
o aver paura
o fingere di non voler crescere
quando invece farlo sarà tanto terrificante
quanto eccitante.

Mi va di vedervi da lontano
per farvi una foto
da tenere domani.

domenica 4 febbraio 2018

THREE BILLBOARDS OUTSIDE EBBING, MISSOURI - la recensione



Ci sono un poliziotto con un grave problema, una donna la cui figlia è stata uccisa dopo uno stupro e tre manifesti. No, non è una barzelletta. Perché Three Billboards Outside Ebbing, Missouri è un film che, sebbene lasci spazio a qualche risata amara, è una grande riflessione sia umana che narrativa.

Quella volta che ero a Londra

La prima volta che ho sentito di questa pellicola è stato l’ultimo giorno dello scorso anno. Ero a Londra e, mentre aspettavo il treno a Victoria, guardavo un cartellone pubblicitario di quelli che girano in continuazione. Da una parte sfilava un musical, dall’altra un film dal titolo lunghissimo e dai colori scuri. Ho pensato caspita, non lo andrò mai a vedere.
Ma era un’affermazione superficiale, figlia della stanchezza e di una colazione inglese in zona Portobello che ancora devo digerire.
Alla fine, tra nomination agli Oscar e vittorie ai Golden Globe, Three Billboards (da ora solo TBOEM) sono andato a vederlo. Pure in lingua originale. Con mia sorella. Di mattina. A Milano.

Del film, comunque, non avevo visto molto: un paio di pareri di compagni di scuola (tutti positivi, il che ha aumentato la curiosità), un trailer guardato di sfuggita e un pezzo di intervista a Francis McDormand.
È bello andare al cinema impreparati, ci si sorprende di più.

Tre insoliti personaggi

La premessa narrativa è alquanto originale: una donna la cui figlia è stata stuprata e uccisa decide di affittare tre enormi manifesti abbandonati ai margini della piccola Ebbing per denunciare la polizia che non ha ancora una pista verso l’assassino.

Divorziata, incazzata e (per usare un termine che va di moda) resiliente, Mildred non ha ottimi rapporti con la cittadina della quale diffida.
La sua crociata alla ricerca della verità tira in campo direttamente lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), la cui reputazione cambia a seconda degli occhi con cui la si guarda: quella dei colleghi alla stazione di polizia, quella della moglie, quella delle figlie, quella di Mildred e quella dei tre cartelli.

Eccoli, i tre cartelli – o manifesti che dir si voglia. Sono solo enormi pezzi di carta ma vivono, cambiano, creano conflitti, insomma: sono dei personaggi a tutti gli effetti. Hanno un arco narrativo di continua mutazione che come un vento soffia sulle decisioni dei protagonisti e li muove, dentro e fuori.

La mina vagante si chiama Dixon, poliziotto pieno dei peggiori difetti (razzista, ubriacone, scontroso…) che sono lo scudo che nasconde la sua insicurezza. Questo film ha una capacità che altri non hanno, che è saper far evolvere non tanto il personaggio nel suo arco, ma valore morale che questo suscita in noi. È un concetto che non vale solo per Dixon, ma anche per lo sceriffo e Mildred. 

TBOEM è un film sulla fragilità corazzata, sulla rabbia che denuncia il sistema, sul valore della vita che non viene mai considerato abbastanza.
Il mio amico Paolo ha ragione quando dice non vedevo un film così da tempo, perché ha un qualcosa di inspiegabile che coinvolge anche dopo la visione.
Credo che sia un film che nasconde un lato dell’esistenza che vale una seconda, terza, quarta visione.
Ergo, finchè è in sala vi consiglio spassionatamente di andarci. 

-Tutta questa rabbia, genera soltanto rabbia.-


RIDE - Qualcosa di nuovo sotto il sole (e menomale)

Da due anni a questa parte si parla di rinascita del cinema italiano. Smetto quando voglio, Jeeg Robot, Veloce come il vento, Brutti e...